MEDIO ORIENTE, OCCIDENTE E LA GUERRA DELLE PAROLE

È scoppiato l’ennesimo conflitto in Medio Oriente e non abbiamo dovuto aspettare molto prima che in occidente scoppiasse la guerra delle parole che impatta in maniera altrettanto grave sulla vita delle persone.


Sono anni che assisto a questa escalation di violenza e, ogni volta, la tristezza è sempre più profonda perché lì ho degli affetti e nutro un profondo attaccamento per una terra che sento casa mia.


Sarebbe troppo complicato, in un articolo,  spiegare le ragioni storiche di un conflitto che dura da più di settant’anni; più volte ho colto l’occasione per dare delucidazioni in pubblico usando i miei primi due romanzi, “Oltre il mare di Haifa” e “Corri più che puoi”, il secondo di scottante attualità.


Anni di Medio Oriente mi hanno costretta a imparare a muovermi sui binari del linguaggio; lì le città vengono chiamate in maniera diversa a seconda se si parla con un ebreo o con un arabo, le definizioni delle guerre, dello spazio e del diritto all’autodifesa mutano se ci si raffronta con gli uni o gli altri. Il linguaggio si complica ancor più se si discute con un arabo israeliano o un palestinese, un palestinese di Gaza o uno di Ramallah, un colono o un abitante del Golan, un israeliano di Haifa, uno di Tel Aviv o di Bersheva.
L’arcobaleno umano che caratterizza quella terra è pieno di sfumature caratteriali e storiche di cui il linguaggio è spia.


Come lo è lì, anche qui da noi – nel cosiddetto occidente democratico- il linguaggio rivela molto delle nostre posizioni su quel conflitto; i social network e i media- cartine tornasole dell’umore collettivo- non esitano a bollare come terroristi talvolta gli israeliani talaltra i palestinesi. Parlano di Gerusalemme in maniera inappropriata non distinguendo tra quartieri e cittadine limitrofe, facendo un enorme minestrone delle diverse etnie e della geografia della terra.

Raramente leggo articoli o ascolto interventi di persone che conoscono l’arabo o l’ebraico, vere chiavi di lettura di quel mondo; la maggior parte usa la lingua ponte, l’inglese, per comprendere popoli che hanno per madre lingua idiomi semitici con origini filologiche diverse rispetto a quelle latine o anglosassoni e addirittura un verso differente di scrittura!


Esiste forse arroganza più grande di quella di voler parlare in nome di qualcuno di cui non si comprende la lingua e non si conosce la geografia della regione in cui abita?


Non credo esista arroganza più grande; eppure anche chi non possiede gli strumenti adatti a capire quei mondi parla o condivide opinioni di altri senza verificare la veridicità di quanto legge o ascolta.


Ogni volta il confine si sposta un po’ più in là; le parole cominciano a raccontare storie diverse, circolano dando interpretazioni sempre più estreme e, come un’onda anomala, generano uno scontro verbale che sfocia in odio travolgendo il nostro mondo. Gli scontri in America di questi giorni tra sostenitori filopalestinesi e filoisraeliani sono lì a dirci che le parole si sono schiantate per le strade ferendo fisicamente le persone.


Siamo in balia dei nostri umori e contribuiamo a perpetrare qui il conflitto che là fa vittime.
Sono due le certezze della guerra: qualcuno muore, qualcun altro ci guadagna.
Ci poniamo le domande giuste? Ci chiediamo “Cui prodest”, a chi giova tutto ciò? O semplicemente ci infiliamo sul carro della polemica convinti di fare l’interesse della parte lesa?
Ci chiediamo quali effetti abbiano le nostre azioni – in questo caso date da parole- su quel mondo? Siamo veramente interessati a quei popoli e a quella terra o vogliamo solo portare avanti un’ideologia che ci permetta di essere identificati con la destra e la sinistra nostrane?


Per capire il Medio Oriente occorre avere una profonda conoscenza della Storia locale e mondiale, sapere almeno un po’ parlarne le lingue, conoscerne la cultura (e in questo la narrativa è uno strumento di incomparabile valore), essere stati nelle case di quelle persone.


Ho cominciato a scrivere di Israele e Palestina solo dopo aver messo assieme tutti i pezzi del puzzle di cui qui parlo, eppure ancor oggi – dopo sedici anni di rapporto con una terra che mi ha adottata- sento che ci sono ancora cose che mi sfuggono: le domande sono sempre più numerose delle risposte.


Per questo scrivo della guerra che portiamo avanti con le parole, perchè, se questo conflitto verbale non si ferma, inutile sperare che quello delle bombe abbia tregua.


Il Dio della Bibbia ebraica crea con la Parola, è, in un certo senso, il primo Scrittore a compiere un atto d’amore; dalla Bibbia comprendiamo però come poi il dono della parola data all’essere umano abbia avuto evoluzioni non sempre positive.


Con le nostre scelte linguistiche non stiamo contribuendo alla pace in Medio Oriente, ma la stiamo precludendo del tutto.
Non esserne consapevoli non ci rende meno responsabili perché le conseguenze dell’azione-parola rimangono.
Diamoci un contegno perchè quella terra e quei popoli hanno bisogno di trovare una soluzione, non di essere stravolti dall’odio che trabocca dai nostri media e social.

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