SCRITTURA E PUBBLICAZIONE AI TEMPI DEL COVID

Tempo fa mi fu chiesto di scrivere qualcosa in merito al lockdown e alla pandemia, mie riflessioni che potessero stimolare il pensiero in merito all’argomento.
Rifiutai adducendo come motivazione la necessità, per me, di avere un’adeguata distanza temporale o geografica per trattare un argomento; il coinvolgimento emotivo, in una situazione che ancora stiamo vivendo, non mi rende lucida per analizzare e raccontare una storia.
Sono lenta nell’andare a fondo di una vicenda. 
Mi è in tal senso di consolazione ciò che sentii dire anni fa da Philip Roth sull’11 settembre: il famoso scrittore americano sosteneva che occorre tempo per digerire una situazione e poi parlarne. 
Eppure… 
Eppure gli scaffali delle librerie offrono svariati libri che parlano della pandemia e del lockdown con tanto di consigli su come trovare la serenità.
Ciò mi porta a riflettere su due importanti aspetti legati al mondo della scrittura: la scrittura in sé e la pubblicazione.
Durante il lockdown la biblioteca della mia città chiese a me e ad altri scrittori di realizzare un video per i lettori; presi la palla al balzo per suggerire alcuni testi che avevo letto da poco e per fare cenno alla writing therapy. 
La scrittura come terapia è uno strumento che da tempo si usa in svariati contesti difficili: malattie, lutti, drammi. Non prevede la pubblicazione, ma il semplice usare penna e foglio per esternare le emozioni e sfogarci; aiuta a non implodere e, in momenti faticosi come quelli vissuti quest’anno, mi è sembrata un valido suggerimento. Non solo non presuppone la pubblicazione, ma neppure la competenza che invece si richiede a un testo che si trova sugli scaffali delle librerie: si scrive in base alle proprie capacità e nessuno ci valuta. 
La pubblicazione di un libro prevede però altri criteri. 
In libreria sono numerosi i testi dai contenuti insipidi e dallo stile sgrammaticato e banale. 
Un tempo scriveva solo chi ne aveva le competenze; ora invece molti si alzano al mattino e, pur senza avere talento e capacità, decidono di buttarsi nel mondo dell’editoria  usando ghost writer o facendo di testa propria. 
La crisi dell’editoria ha creato un corto circuito: si propongono molti testi nella speranza che, prima o poi, qualcuno renda il giusto investimento. 
Questo meccanismo è comprensibile a livello di mercato, ma ha pesanti conseguenze in termini di qualità: in primis per i lettori e poi per gli stessi scrittori che svolgono con attenzione questo difficile lavoro andando oltre l’onanismo letterario che ormai si diffonde a macchia d’olio. 
Da lettrice purtroppo mi capita di entrare in libreria e chiedere di libri non più trovabili perchè considerati “di nicchia”, non più ristampati in quanto di scarso investimento. 
Da scrittrice corro il rischio di venire percepita come “difficile” e con poco appeal perchè scrivo libri che trattano tematiche complesse seppur con uno stile alla portata di tutti (come più volte mi è stato detto da lettori di svariate età e formazione). 
Il risultato di questo pasticcio è il rischio che il libro diventi un “libroide”, un prodotto da discount narrativo: non solo è compromesso il discorso letterario che tocca vette poco raggiungibili ai più, ma anche quello della buona narrativa. Abbiamo così meno prodotti di qualità per fare spazio a prodotti percepiti come più facili e alla portata di tutti con ripercussioni sulla formazione globale: libri scritti male che, ahimè, costruiscono il nostro pensiero e le nostre azioni. Come ho già detto in altri contesti, è il linguaggio a formare il pensiero, non il contrario. 
Ricordiamocelo ogni volta che entriamo in libreria per fare un acquisto. 
Comprare un libro di Eshkol Nevo o di Pennac – solo per fare due nomi noti- ci aiuta, nel nostro piccolo, a migliorare il mondo in cui viviamo e rendere più tollerabile un anno come il 2020. 
È con scelte così che prendiamo le distanze giuste non solo per raccontare certe storie, ma per tornare a respirare in tempi di apnea interiore ed esteriore. 

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